mercoledì 30 gennaio 2013

Don Giovanni al Teatro della Fortuna di Fano








Fano – Teatro della Fortuna


 DON GIOVANNI di W. A. Mozart

(recita del 20 gennaio 2013)

 La tinta mozartiana resta dietro le quinte

  Analisi di Giosetta Guerra


Oggigiorno il teatro d’opera è diventato più una sala d’esposizione per registi e scenografi che un luogo dove ascoltare buona musica e bravi cantanti.

Nella nuova produzione del Don Giovanni di Mozart, che ha aperto la stagione lirica al Teatro della Fortuna di Fano, l’aspetto visivo è prevalso su quello uditivo. E stiamo parlando di Mozart che si potrebbe ascoltare ad occhi chiusi, stiamo parlando di Don Giovanni che ha già la descrizione di tutto nelle note, quindi gli elementi di base, irrinunciabili, sono un cast adeguato ed esperto del canto mozartiano e un direttore che porti l’orchestra a realizzare la tinta mozartiana, poi ben venga anche il bell’allestimento per fare spettacolo. 
  

Al Teatro della Fortuna di Fano il lavoro accurato di regia, scenografia e luci ha prodotto uno         spettacolo bello da vedere. Il regista Francesco Esposito (il cui nome non è scritto sulla             locandina del libretto di sala) si è affidato alla    simbologia, lasciando intuire a chi già li            conosceva ambienti e luoghi, che potevano però essere poco chiari per i neofiti.                      

Buona la scelta dei simboli: lo specchio mal     riflettente per la vanità e per il compiacimento di sé (sentimenti che non danno la giusta        immagine della vita), la rosa per l’amore e l'insidia perché ha anche le spine (Don Giovanni la dona a tutti, ma poi la sfoglia e fa cadere i petali addosso alle persone), la maschera per     nascondere se stessi ma anche per superare le proprie insicurezze (tutti indossano una           maschera di varie fogge e dimensioni), il            palcoscenico in pendenza per la precarietà degli  equilibri. Questa sorta di medaglione a specchio con l’effige del protagonista è sempre presente in scena, appoggiato o sospeso, e risolve in modo molto       originale la fine di Don Giovanni, piegandosi a mo’ di coperchio sopra la botola in cui il dissoluto è sprofondato tra il fumo che invade la sala.
                                  
 







Azzeccatissima l’apparizione della statua ossidata dal tempo che, accompagnata da una processione di  uccelli rapaci, arriva a cena sbucando dalla botola e tirando su verso l’alto  la tovaglia bianca che fa da basamento.                                  
Inquietanti le maschere beccute che   restano dietro anche nel canto           liberatorio dei sopravvissuti (Don       Giovanni non è morto se non             materialmente), distribuiti sulla         passerella davanti ad una sala          affumicata. Poi tutti in palcoscenico   per gli applausi, anche gli orchestrali, tutti senza maschera, avvolti da una  luce dorata, mentre dall’alto scende   una rosa d’oro.                                

Il palcoscenico si amplia su una passerella intorno all’orchestra per le            esibizioni solistiche, la platea viene usata anche per l’ingresso di Don            Giovanni e delle maschere, i palchetti di barcaccia sono adibiti a balconi.                                                                                                                     

Le scene sono di grande effetto, grazie alle luci, al variegato posizionamento di lampioni a forma di maschera, alla presenza inquietante di figuranti con    maschera bianca dal naso adunco, che al momento della morte del Don       apparivano come avvoltoi, all’esternazione dei pruriti delle donne, che        mostrano spesso le loro grazie e ci stanno un po’ con tutti, c’è anche una      sveltina tra Don Giovanni e Zerlina durante la festa in maschera; un lavoro      accurato frutto di una riflessione artistico/filosofica del regista, tuttavia la    scena fissa, anche se variata nei particolari, e troppe cose e presenze da      seguire e da capire, hanno impegnato eccessivamente le nostre meningi,      distogliendole dalla parte musicale.                                                           
Per alcune scelte comunque ci siamo posti degli interrogativi.                       
Perché la stanza di Donna Anna è in piena luce se lo “stupro” avviene al buio,  tanto che lei confonde Don Giovanni con Don Ottavio? Perché non usare il       grande medaglione per la visualizzazione della “marmorea testa che fa così    così” nella scena del cimitero? (Il colloquio col profilo del commendatore su    una piccola cornice rotonda è poco credibile e quasi incomprensibile, bella     invece l’idea di far accettare l’invito con una mano che sbuca dal basso         porgendo una rosa).                                        

Perché vestire di bianco tutte e tre le donne       (Donna Anna indossa anche un abito nero) se     sono di tipologie diverse? Perché la scena di       seduzione Don Giovanni/Zerlina che dovevano    essere soli (Là ci darem la mano) si svolge tra    dame e cavalieri? Perché per lo scambio di        identità Don Giovanni e Leporello indossano lo    stesso mantello? Perché ridurre la cena del Don a un mordi e fuggi su uno scalino della pedana       sulla quale danzano dei personaggi in nero?       

I costumi sono bianchi e uguali per le tre donne,  Anna poi lo cambia con un sontuoso abito nero,   rosso bordò e poi rosso vivo per Don Giovanni,    nero per Leporello e Ottavio, neri o beige per le   masse, mantelli bordò cangiante per le            maschere, cosce all’aria e mutandoni per le        donne, dorso nudo per i figuranti. C’era di tutto e di più.                                                            

Regia e costumi di Francesco Esposito, scene di Mauro Tinti, sculture di Franco Armieri, luci di Fabio Rossi, coreografie di Domenico Iannone.

Sul piano musicale e su quello vocale la tinta mozartiana è risultata piuttosto carente. L’atmosfera intrigante e inquietante non si è sentita subito in           orchestra che ha iniziato con una certa flemma: sbrigativa l’Ouverture (che     riassume l’ambiguità della partitura mozartiana) e piuttosto noiosa la prima   parte fino all’ingresso delle maschere, momento in cui l’orchestra ha              cominciato a carburare, entrando un po’ più nel linguaggio mozartiano. Forse   sarebbe stato il caso di dedicare più tempo alle prove musicali dell’Orchestra   Sinfonica G. Rossini diretta da Roberto Parmeggiani, risparmiando magari    sull’aspetto esteriore, che qui comincia dal foyer; bello certamente, ma se i    soldi sono pochi si dovrebbero privilegiare la musica e il canto.                    

I cantanti, giovani e ben preparati, hanno eseguito con cura il loro compito più o meno sostenuti dalle loro peculiarità vocali.                                             

Il più navigato era il basso marchigiano Andrea      Concetti nel ruolo protagonista di Don Giovanni.    Pur non essendo in perfetto stato di salute, ha      mantenuto lo smalto vocale e la verve scenica che   conosciamo, voce ben timbrata, di notevole            spessore, emissione morbida, padronanza del         palcoscenico. Il fraseggio era un po’                     approssimativo, nonostante il buon peso vocale,     nell’aria “Fin ch’han del vino”, disturbata dal rumore delle coppie che ballavano e si rotolavano dietro.   

                     

Giovanni Guagliardo  (Leporello) ha esibito un bel timbro di baritono, tecnicamente canta bene anche se la zona acuta è un po’ rozza, nell’aria del          catalogo, durante la quale scendevano dall’alto      medaglioni con profili di donna, sostiene i suoni e   si destreggia bene nel canto sillabato, ma non dà   giocosità all’accento, che è invece un po’ sguaiato,  il fraseggio è superficiale.                                   

Il basso poco profondo Christian Faravelli non è adatto per il ruolo del           Commendatore.                                                                                      

Di grande presa il terzetto iniziale Giovanni Leporello Commendatore, un po’   meno quello del cimitero.                                                                         

 
Il mezzosoprano Agata Bienkowska  non ha il temperamento di Donna      Elvira, è debole, a volte noiosa e       pigolante e cerca di tenersi su con la  fiaschetta del whisky (scelta             registica),  è flemmatica nell’aria “Mi   tradì quell’alma ingrata”, la voce esce  a tratti pompata, con suoni corti         fastidiosi e un canto monocorde,        eppure ha un buon corpo vocale, ma    gonfia i suoni nella zona grave.        

Pablo Karaman (Don Ottavio) è un tenore          flebile, tecnicamente ha cantato bene “Dalla sua  pace” toccando adeguatamente tutti i registri,      usando la messa di voce e la mezza voce, e “Il    mio tesoro intanto” (anche se con vocalizzi         precari), ma manca proprio della materia prima,  non ha corpo vocale.                                       

Il duetto iniziale con Donna Anna (che emette solo qualche strilletto) è molto fiacco.                 Laura Giordano (Donna Anna) ha un bel timbro   sopranile, il suono è pulito e gradevole nelle        smorzature, ma non nelle puntature acute. Ha      cantato molto bene la richiesta di vendetta, con   l’espressività e le dinamiche necessarie,             purtroppo la voce è troppo acuminata. Ha           eseguito con cura il soavissimo rondò “Non mi     dir, bell’idol mio” con lunghi filati, ma la voce è   poco duttile anche se luminosa ed acuta.          

La voce del soprano Carolina Lippo     
(Zerlina) è generalmente stridula, ma  nella scena di seduzione/perdono con  Masetto (Batti batti bel Masetto) è     più aggraziata, ben modulata (c’è      anche un bel filato) ed è sostenuta     dalla complicità dell’orchestra.          

La Giordano e la Lippo (Anna e          Zerlina) sono vocalmente simili, la    voce è leggera e puntuta e manca di  morbidezza.                                   

Giacomo Medici è un Masetto moscio e con poca voce.                             

Buono il Coro del Teatro della Fortuna M. Agostini diretto da Lorenzo Bizzarri.

 


  

Foto Amati Bacciardi.









domenica 20 gennaio 2013

L'enfant prodigue e Cavalleria rusticana







ANCONA TEATRO DELLE MUSE


STAGIONE D’OPERA 2013

 

UN DITTICO INUSUALE…AL BUIO…O QUASI. 

Croci e crocefissi dappertutto anche in posti poco ortodossi

 

(domenica 13 gennaio 2013)

Di Giosetta Guerra

La Stagione Lirica 2012/13 di Ancona, curata dalla Fondazione Teatro delle Muse con la direzione artistica del Maestro Alessio Vlad, si è aperta venerdì 11 gennaio alle 20.30 e domenica 13 gennaio alle ore 16.00 con il dittico L’enfant prodigue di Claude Debussy e Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni.

L'enfant prodigue (1884), cantata per soli e orchestra su libretto di Edouard Guinand, è una composizione che Debussy fece a 22 anni a conclusione degli studi al Conservatorio di Parigi, fu rappresentata all’Académie de Beaux Arts e valse al musicista il "Prix de Rome".
Cavalleria Rusticana (1890), opera in un unico atto, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga, musicata da Mascagni ventisettenne, vinse il concorso indetto dalla Casa Sonzogno.
Altri connotati in comune sono la religiosità e la brevità: la prima è la parabola del figliol prodigo tratta dal Vangelo di Luca e dura 35 minuti, la seconda si svolge nel giorno di Pasqua e dura 70 minuti.
Sul piano operativo il nuovo allestimento dei due lavori ha avuto in comune alle Muse regia, scene e luci di Arnaud Bernard, la direzione musicale di Carla Delfrate alla guida della FORM-Orchestra Filarmonica Marchigiana e il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” preparato da Pasquale Veleno.
Con lettura attenta e fin troppo equilibrata Carla Delfrate ha guidato la brava orchestra nelle atmosfere rarefatte della musica di Debussy e nella temperie lirico/drammatica della musica di Mascagni.
La musica de L'enfant prodigue ha già lo stile del Debussy più noto: sopra un tessuto sonoro  sospeso si libra un fluttuare ininterrotto di aeree linee melodiche che ora crescono d’intensità, ora si arricchiscono di elementi giocosi e di varietà di colori espressi dai differenti timbri strumentali.
La musica di Cavalleria Rusticana ha pagine musicali distese di seducente bellezza, come il noto Intermezzo, e si esprime con vigore ed esuberanza nella descrizione del vero e del quotidiano.

Nella Cantata di Debussy alla levigatezza della musica fa da contraltare l’asperità del canto: il soprano Elisabetta Martorana (la madre Lia) esibisce suoni densi da mezzosoprano, il tenore Davide Giusti (il figliol prodigo Azaël) ha una bella voce che usa bene e con generosità, i loro acuti sono sempre tesi; il baritono Gianfranco Montresor (il padre Siméon) tiene un’emissione morbida e dizione francese chiara.


In Cavalleria Rusticana la tipologia vocale di stampo verista porta alcuni cantanti, specialmente i tenori, ad emettere suoni aperti, a cantare col fiato e non sul fiato, trascurando la “maschera” nel passaggio alla tessitura acuta, con il rischio che la voce a forza di tirare si spezzi. È quanto è successo al tenore  Kamen Chanev (Turiddu), che già nella Siciliana fuori campo esibisce quella che sarà la sua linea di canto per tutta l’opera, emissione di gola e di fibra, declamato a mezza voce fatto sottovoce, acuti tesi, fino a steccare l’acuto nell’addio alla madre (era logico, l’avevo capito fin dall’inizio che sarebbe finita così), eppure la voce c’è ed è di bel timbro e non sarebbe difficile imparare una tecnica giusta. Boh!
Gianfranco Montresor (Alfio) ha invece una buona linea di canto e usa in modo espressivo una bella voce di baritono.
Magnifico il Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini” specialmente nella sezione maschile che ha voci di grande spessore, quella femminile dovrebbe ingentilire la zona acuta.
Tra le donne c’è una gran confusione di registri. Lucia dovrebbe essere un contralto e qui Giovanna Donadini non si capisce cosa sia perché è una Lucia piuttosto sfiatata, Lola dovrebbe essere un mezzosoprano e Aliona Staricova è un soprano, corretta nel canto ma di poca presa, Santuzza è un soprano e qui la canta Anna Malavasi, che era soprano ma oggi è mezzosoprano e interpreta Carmen e Azucena. Comunque la Malavasi ha il temperamento e i mezzi vocali per essere una viscerale ed intensa Santuzza, ha voce piena, possente negli affondi, duttile e di bel colore brunito, gonfia un po’ i suoni medio-gravi e spinge gli acuti, ma sa modulare, interpretare e dare spessore drammatico alla frase pur con una dizione poco chiara. Anche scenicamente la Malavasi è molto espressiva, purtroppo, quasi al buio e coperto da uno scialle, non le si vede mai il viso. Che ci volete fare? Il regista ha deciso così: poca luce, poco colore, poca scenografia, scelta che danneggia soprattutto Cavalleria rusticana, dove manca l’assolata e calda Sicilia, manca l’evolversi della luce dall’alba al tramonto, manca la piazzetta su cui si aprono le porte della chiesa e dell’osteria. Scenicamente non ci si può limitare al colore della morte, ma si deve valorizzare anche il colore della vita, che in quest’opera è presente col sole della Sicilia, con la densità delle passioni, con la luce della Resurrezione.
Della chiesa c’è un interno, dove la gente si prepara alla funzione, si preparano gli addobbi coi fiori bianchi, si vestono di bianco i chierichetti e le bambine, c’è anche una macchina da cucire per  orlare un grande telo bianco. Tanti preti neri su fondo nero camminano o corrono per la scena, un grande candeliere viene portato in giro, rosari, croci e crocefissi dappertutto anche in posti poco ortodossi, proiettati sul fondale insieme ad una bicicletta, sulle pagine di un libro aperto, sulla schiena nuda e sulle natiche di una figura femminile proiettata per presentare Lola (contaminazione di sacro e profano), tra le mani insanguinate di Turiddu assassinato; ci sono donne che lavano il pavimento e la luce dà risalto alla pelle delle braccia e spessore alle masse. Tante passeggiate di gente coi fiori, coi lumini, coi teli, tante corse di persone, anche Santuzza all’inizio sfila sulla passerella attorno all’orchestra. Alfio giunge su un carrettino trainato da una vespa. L’uccisione di Turiddu viene gridata da una donna che entra correndo dal fondo della platea
 
Tutto è pesantemente nero e vuoto: i costumi dei preti (ma quanti preti!), quelli delle due donne tranne Lola che è in chiaro e al di là di ogni tentazione, quelli del popolo stemperati col bianco, i fondali, le scene, il velatino/sipario che (non si capisce perché visto che dietro non c’è niente da cambiare) viene calato ad ogni batter di ciglio, interrompendo l’azione e  lasciando momenti e spazi di nero assoluto, così nero che al ritorno in scena di Turiddu imbrattato di sangue rossissimo alla fine dell’opera con proiezione delle sue mani insanguinate ho esclamato: 
“Oh, finalmente un po’ di colore”!

Clima tetro e opprimente, dunque, che la scena di sesso tra Turiddu e Lola in apertura d’opera non lasciava certo intuire, comunque alcuni quadri sono suggestivi, specialmente quando si usa il fermo immagine o immagini riflesse o figure ispirate a composizioni pittoriche.  Inoltre non si capisce perché Santuzza auguri la mala Pasqua a Turiddu che se n’è andato e non la può sentire e perché sempre Santuzza strappi istericamente dei fogli bianchi durante l’intermezzo. Mah! Misteri della fede!
I figuranti di Cavalleria rusticana provengono dalla Scuola di Teatro del Teatro Stabile delle Marche.


È nera anche la scena de L'enfant prodigue, ma qui il gioco delle luci crea l’atmosfera onirica che si respira in una sontuosa camera con crocefisso luminescente e con un grande letto dalle lenzuola nere, nel quale dormono marito e moglie (lei in preda agli incubi, lui no) in attesa del ritorno del figlio, atmosfera adatta anche all’apparizione flash del figliol prodigo che sbuca dal nulla, o meglio dal buio, a lato della camera e la cui immagine viene proiettata ingigantita sul fondale. Ma poi il ritorno del figlio è sogno o realtà? Il buio che non definisce gli ambienti ce lo fa apparire come un sogno, il cambiamento del rapporto tra i due genitori (distaccati nell’attesa e poi amorevolmente riuniti – lei gli lava perfino i piedi) ci fa supporre che sia tutto vero, ma, se il figlio è ritornato davvero, perché non esplode la luce? Comunque interessante questa indefinitezza.
Bellissima e nuova anche l’idea registica di far danzare in aria le frasi tradotte dal francese in italiano, come in una favola, fluttuante la lunga camicia da notte bianca un po’ trasparente della madre, decisamente brutta la tutina chiara in maglina aderente indossata dal padre, che fortunatamente aveva il fisico di Gianfranco Montresor, ma che proprio per questo il regista doveva mandare a letto a petto nudo.

La seconda opera in cartellone sarà Madama Butterfly  di Puccini, in scena l’8 e il 10 febbraio 2013 al Teatro delle Muse con direttore d’orchestra Renato Palumbo, regia, scene, costumi e luci di Arnaud Bernard. Speriamo che nella terra del sol levante schiarisca i colori.

Foto Bobo Antic.